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Riviste letterarie: intervista a Carlo Marcello Conti, direttore di «Zeta»â€‹

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Dopo le interviste ai poeti residenti in Campania, riprendiamo il discorso delle interviste rivolgendo le domande, più o meno le stesse per tutti, ai direttori di riviste non solo con sede in Campania. Oggi intervistiamo Carlo Marcello Conti, direttore di «Zeta», rivista cartacea con redazione a Pasian di Prato-Udine.

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Incominciamo con una domanda semplice e forse scontata, ma che ci serve per inoltrarci in questa intervista. Chi è Carlo Marcello Conti?

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Carlo Marcello Conti è un ragazzo del 1941. Nato in Cadore da genitori romagnoli. Poeta  performer, artista multimediale, poeta visivo e sonoro da moltissimi anni. Sono stato ospite del  DAAD a Berlino nel 1985 e lettore all’Istituto di Italiano della Queen’s University a Belfast.   Ricordo tra le pubblicazioni: Fuori di casa; Itaca; Il cavallo di Troia; Il cavallo di Dindia; Eliminazz/zzione; Piò Piò fa il galop; Bocia passatore; Berliner; L’età della politica; Cinesi; Il Friuli del coraggio; Contenuta; Segnalibri; Le privazioni di una mosca; Morsicato è il cuore; Telemaco bintar; Attraversato da; Il consumo del presente; Lo spessore della carta; Eccetera. Ho ricevuto premi onorificenze. Ho partecipato a mostre personali e collettive in Italia e all’estero.

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Come e quando è nata «Zeta» e che linea editoriale presenta ai suoi lettori?

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«Zeta» nasce nel 1969. Dopo esperienze bolognesi e dintorni con Adriano Spatola, Giovanni Scardovi, Germano Sartelli, Gherardo Ortalli, Mario Dal Monte. È del 1962 la rivista «Bab Ilu» diretta da Spatola con Celli, Celati, Bini, Negri, Tomiolo, Conti. Significativi alcuni anni intorno  allo Studio Bentivoglio con Ovan, Calzolari, Pasqualini, Napoletano, Bini, Bendini, Mazzoli. Arriva «Zeta» fra Imola, Bologna e Udine. Linea editoriale dal numero 1: dopo le avanguardie storiche una decisa attenzione a tutto ciò che continuo a identificare con il consumo del presente, nello specifico le vicende della visualizzazione del linguaggio e quanto si deve accettare  per mantenere un  dialogo intorno a questo con le parole semplici dell’arte, della musica, della vita.

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‒ Immagino che si faccia una certa selezione prima di pubblicare testi sulla tua rivista. Con quali parametri vengono effettuate tali scelte?

Spesso fuori da ogni scuola, ma dentro la vita che ci attraversa continuamente.

‒ Con quali parametri vengono effettuate tali scelte e quanto spazio date ai giovani e alla poesia?

Si continua a fare una selezione molto attenta a quanto accade attorno alla vita della scrittura e al presente della vita nelle varie discipline. Non solo con i giovani e le fasi incerte del presente dei giovani.

‒ C’è una redazione e chi sono i componenti e con che ruoli?

C’è una redazione che n egli anni ha avuto molti cambiamenti e un nutrito gruppo di collaboratori fissi oltre alle redazioni estere. Significative restano le presenze di Lamberto Pignotti e Fernanda Salbitano. I ruoli sono semplicemente lo specifico di ogni collaboratore che naturalmente di volta in volta, attraverso la specializzazione individuale, ci fa una libera proposta che viene poi vagliata.

‒ A chi è rivolta «Zeta» e con quale periodicità?

Ogni tanto continuiamo a proporre numeri monografici di valore internazionale su un autore. Con gli strumenti e la collezione di Zeta Visual il nostro apporto verso la visualizzazione del linguaggio è costante. In questo la Casa editrice Campanotto ci supporta con attenzione. Ci rivolgiamo alle persone che continuano ad avere uno spiccato bisogno di condividere qualcosa che cerca di assomigliare a un più attento presente culturale, con uscite trimestrali.

‒ Seguo da anni la tua rivista, apprezzando le scelte sulla poesia visuale di cui dai molto risalto. A proposito: come è messa oggi la poesia visuale in Italia?

Come una cosa che è molto vivace nel panorama artistico e letterario, ma che non ha un mercato. Noi continuiamo a credere che prima o poi cambierà. Anche la latitanza delle istituzioni.

‒ Nel numero 118 (2018) affermi: «Dopo questo limite illimitato dell’essere totale della poesia  che non dice come essere semplicemente esistere è la sua totalità». Puoi spiegarti meglio?

La vita di un poeta è la poesia e in questo vive la sua totalità: esistere è oggi la vita sprofondata nelle tecnologie e nella grande distruzione della comunicazione dei social e della rete. Da questi frammenti dell’immaginario, da queste rovine prende consistenza una forte indicazione che sta alla base di ogni scelta in momenti come questi. Necessariamente più ingombrante, totale. Ultimo segnale ancora utile. Esistere in ogni sua forma annientata. Per esistere. Non so se mi sono spiegato meglio a proposito di una cosa che non ha una spiegazione come la poesia. La vita di un poeta è l’unica possibilità oggi predisposta per una poesia totale. Quella cosa che va trovata, salvata in ogni spunto che nella vita di un poeta è il respiro della poesia.

‒ E a proposito di poesia totale ‒ che ci ricorda l’indimenticabile Adriano Spatola – è ancora possibile oggi una proposta di poesia totale?

Nel senso che il fare di un poeta è poesia. Da qui una sua totalità possibile. In pratica, la vita, anche quella di una persona qualunque, è in stretta attinenza con il continuo aumento delle problematiche che in ogni settore la formano. In questo limite che avendo bisogno di uscire dalle proprie abitudini per continuare non è più un limite, ma un illimitato limite della esistenza che, nella vita di un  poeta, è un totale bisogno di non porsi dei limiti, altrimenti la sua poesia non è qualcosa che assomiglia alla sua vita e a quella del mondo contemporaneo che al mondo si confronta, è.

‒ Qualcuno azzarda che le riviste letterarie non hanno più motivo di esistere, visto che non ci sono più correnti letterarie e i lettori scarseggiano o, al massimo, leggono on line. Perché i lettori dovrebbero leggere la tua rivista?

Le riviste come «Zeta» sono la corrente dopo le correnti letterarie per quei quattro lettori che amano ancora la carta e non sono interamente rimasti appesi a un file come già ricordava la pubblicità di una possibile dipendenza dal telefono. Sensibili a questi continui cambiamenti ci sono rimasti ancora affezionati lettori.

‒ Una rivista è in pratica un libro che invoglia a letture totalmente diverse a scritture sul web. Ma siamo nell’era digitale. Per quale motivo hai scelto di pubblicare una rivista esclusivamente cartacea rinunciando al web?

La poesia non è soltanto una memoria digitale, ma anche da un pensiero artificiale può nascere una poesia, e proprio per questa ragione abbiamo pensato che l’unico modo per dare una ragione e la continuità di questa ragione era e resta la carta.

‒ Le riviste on line sono un’invadenza a ruota libera o un’opportunità anche ai fini economici?

Le passioni non sono soltanto una opportunità economica. Neppure qualcosa schiacciato da una moda convincente in molti aspetti che, ripeto, sta fracassando tutto con garbata pacatezza.

‒ Da quando si pubblica «Zeta» ci sono stati argomenti che ti hanno fatto esclamare: «Vale la pena proseguire! Vale la pena spenderci il mio tempo!»?

Da quando si pubblica Zeta sono più gli argomenti trascurati, non affrontati e il numero di lettori non raggiunti che ci hanno fatto esclamare “vale la pena di proseguire”! Il successo o argomenti che te lo procurano possono diventare un momento gratificante, ma che può farti cadere nell’oblomovismo.

‒ E quelli più interessanti, anche a livello personale?

Quello più interessante tra gli argomenti è la realizzazione di questo sogno traballante, come le migliori cose di questo mondo, che resiste da molti anni anche nella certezza che continuare a sognare è un’imprudenza. Forse sogno, sognare sono parole obsolete, ma di certo anche cambiando vocaboli il prodotto non muterebbe nella sostanza. A livello non solo personale può bastare.

‒ Che ruolo hanno – secondo te, al di là del tuo condizionamento in qualità di direttore – le riviste letterarie in questo periodo dove si legge poco, diciamo così, per non dire altro, ma apriremmo un discorso troppo lungo?

Continuare a fare quello che ci ha attraversato, ci ha colpito, quello che abbiamo provato è il ruolo di ogni rivista autentica per l’indifferenza del mondo e purtroppo anche delle istituzioni. D’altra parte il capitolo che si potrebbe aprire su questo è un quaderno di sofferenze. Siamo il fanalino di coda negli investimenti per l’istruzione e la cultura: un Paese senza cultura è affetto dal male più grande. Non basterà il grido pacato del grande direttore d’orchestra a mutare i programmi della televisione. Anche troppi cuochi non arrivano a sfamare questa fame nel mondo, qui ci fermiamo onde evitare una indigestione…

‒ L’amico Felice Piemontese un giorno mi confessò che non credeva più nelle riviste, in quanto – secondo lui – avevano fatto il loro tempo. Io per tutta risposta ho fondato e diretto  due riviste. Si deduce che neanche tu sei d’accordo col pensiero di Piemontese. Perché non sei d’accordo?

Credo di aver toccato già i  motivi per i quali non sono d’accordo con Piemontese. Posso aggiungere che ai tempi di «Bab Ilu» in copertina avevamo dichiarato che eravamo contro Roversi, Pasolini, Moravia. Oggi non ci sono più neanche soggetti per dichiarare il nostro disappunto. Erano dei neorealisti. Da altre parti nasceva la Beat Generation. Il presente cambia continuamente. E anche il passato, visto nel presente non è più come è stato.

‒ Cosa si può fare affinché le riviste tornino ad assumere  un ruolo  primario nel panorama letterario come avveniva nella seconda metà del Novecento?

Aspettare che qualcuno delle nuove generazioni vinca qualche concorso che abiliti a qualche posto dove si possa finalmente considerare tutto quello che qualcuno aveva già considerato.

‒ L’accusa maggiore che viene rivolta alle riviste è quella di giacere in una specie di “oblio”, un limbo collimato dal contesto in cui opera. La tua rivista come si rapporta con l’ambiente in cui opera, cosa propone ai lettori al di fuori della “pagina”, nel tentativo di realizzare una concreta amplificazione del suo messaggio?

Smettere di fare spettacolo. Vivere. Diffondere quanto ci attraversa e ci sembra necessario. Fuori e dentro la pagina. Trovare una relazione con  il contesto è ricominciare. Ma cosa? A fine anni ’50, inizio anni ’60, Fuori di casa, poema del sottoscritto, nell’incipit affermava: mai da chi vi abita. Fuori dalle parole. Mai dalle sue origini. Tutto quello che si è rotto ha dato consistenza a tutto quello che ha resistito. Forse i discorsi sono un tentativo che porta alle rovine “A perdy and fiato”.

‒ Per concludere, che cosa ci proponi col nuovo numero e quando uscirà?

In questo paesaggio un prossimo numero di «Zeta» sarà dedicato a un poeta di origine irlandese che aveva tanti amici, si interessava di arte e scriveva strampalate poesie mentre consumava il lunch.

una parola si slega dall’origine

aggruma & vagula nel ritmo del mare

la sua norma e la sua regola

è pensare ad un codice pieno di curve

di suoni ansiosi & dissacratori

che tracciano lineamenti a sghimbescio

nelle crepe dell’enigma che guizza salinare

tra i muri di una falsa epifania

brumuriando e strumuriando trùmuri

nella marea acquietata delle dicerie

a inventare oltre le certezze del tempo

altre impronte altre allegoriche occasioni

(G.M., luglio 2006)

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